Sveglia all’alba e giù di corsa, c’è da preparare qualcosa di caldo per i tanti ragazzi senza dimora che popolano nel silenzio le vie della città. Il freddo è ancora lontano, ma la fame si fa sentire. Sono tanti gli angeli che ogni giorno si muovono lungo le strade , dal nord al sud, recando un breve sollievo a chi fin troppo vive nell’anonimato e nell’indifferenza, pur popolando intere arterie, occupando porticati e stazioni, raccogliendo la nostra frutta e verdura. Dalla chiesa di San Rocco a Como, un auto, carica di thermos di latte e tè e merendine fa la spola tra centro e periferia, verso i poveri senza identità: non conta se italiani o stranieri, se regolari o irregolari, sono i “piccoli” e gli “ultimi” che Cristo ha affidato alle nostre cure.
Martedì 15 settembre, la città della seta e delle ville è destata dalle grida di chi conosceva l’uomo delle colazioni, quel prete che viveva fra gli umili e gli ultimi per vocazione e missione è riverso in un lago di sangue. Don Roberto Malgesini, 51 anni, era felice di servire Cristo servendo gli ultimi, e lungo la strada che lo conduceva alla chiesa ha trovato la morte per mano di un tunisino senza dimora. L’uomo aveva più volte consumato nel centro d’accoglienza le colazioni preparate da don Roberto: un Giuda che aveva intinto il boccone nel piatto di chi poi ha tradito e ucciso.
Una strana coincidenza con la data lascia basiti, perché era sempre il 15 settembre, quello del 1993, quando fu assassinato don Pino Puglisi, un altro vicino a diseredati, migranti e emarginati. L’elenco è corposo. La chiesa cattolica, al pari di ogni altra confessione, annovera tra le sue fila caduti e racconta di spargimento di sangue innocente, e non solo di pedofilia o corruzione. Come Cristo si prendeva cura degli esclusi, dei senza speranza, chi cammina nelle Sue orme non bada se chi ha bisogno è reo di maltrattamenti in famiglia ed estorsione o accusato per furti e rapine, e se finanche ha alcuni decreti di espulsione alle spalle, e quindi senza diritto di restare nel nostro Paese.
Don Roberto non è finito al patibolo per la predicazione del Vangelo o la distribuzione di bibbie, non ha ricevuto un ingiusto processo per aver praticato la misericordia e aver camminato nella compassione, ma si è spento tragicamente con un taglio alla gola infertogli da una mano “amica” e senza apparenti motivi. Credo sia comunque un martire della fede. A cosa serve parlare di infermità mentale del tunisino, di un gesto folle? Fosse anche un atto volontario, resta il dramma e il dato che sempre più atti efferati recano la firma di immigrati, e anche questa volta un’onda sarà cavalcata contro chi è “diverso”, ma non per colpa sua. L’omicida, reo confesso, ora ha più bisogno di prima, e noi cosa facciamo?
Il prete di Morbegno ha deposto la vita proprio facendo quello che più amava, incarnando le parole del Maestro: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà» (Luca 9:23-24). Chi ama Dio, ama il prossimo senza preoccuparsi di eventuali rischi o pericoli. Sono altri che dovrebbero adoperarsi a percorsi di integrazione sociale e favorire eventuali terapie, se necessarie. Purtroppo continuiamo a fare cronaca quando è troppo tardi, quando resta da emettere sentenze e fare cordoglio.
Nessuna vendetta reclama il sangue sparso, nessuna discriminazione, perché l’amore tollera e sopporta ogni cosa, oltre l’umana comprensione. Vorrei però che per tutti i martiri cristiani vi fosse la stessa attenzione, lo stesso ricordo, pur consapevoli che quel che è scritto nei Cieli non sarà mai cancellato.
Foto di jaime cooper, www.freeimages.com
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