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Immagine del redattoreElpidio Pezzella

Un amore di presepe

Sono nato in una famiglia cosiddetta credente come tante nel nostro Paese, per cui le festività “cristiane” erano per lo più momento di ritrovo familiare intorno a una tavola imbandita con i piatti del periodo e della tradizione e soprattutto occasione per giocare assieme. La mia nonna paterna era assidua frequentatrice della chiesa. Ricordo che la raggiungevo alla messa domenicale e le facevo compagnia nella speranza di ricevere alla fine qualche soldino. Ed è proprio in chiesa che un dicembre di un lontano anno conobbi il presepe, realizzato in una navata laterale, con dei pastori bellissimi e uno scenario mozzafiato. Fu subito amore.

Ero ancora piccolo per realizzarne uno da solo, e mio padre non era Lucariello Cupiello che tanto amava “o’ presepio”. Riuscii però ad averne uno di quelli essenziali, la capanna con il bue e l’asinello, Maria, Giuseppe e il bambinello, che da quell’anno si affiancò in casa mia all’albero. Qualche anno dopo, grazie a un compagno di classe che aveva uno zio esperto in costruzione di presepi, ho appreso i rudimenti per farne uno da solo: piccole assi di legno per la struttura, la colla realizzata con acqua e farina, la carta da salumiere per modellare le montagne, la carta stagnola invece per il fiume o il laghetto, mentre la corteccia e il muschio per i paesaggi. Da allora potei dare sfogo alla fantasia per creare da principiante il mio presepe.

Un mese prima partiva il progetto e la raccolta del materiale, soprattutto l’acquisto dei personaggi da aggiungere: dai re magi in viaggio a quelli in adorazione, i due zampognari fuori la grotta, i pastori con il gregge e il pescatore. I miei occhi da ragazzo vedevano nel tempo animarsi la costruzione attraverso l’aggiunta di luci, acqua in movimento e finti focolai, tutto per arricchire e accrescere l’attenzione attorno alla stanza più importante. Quel che più di tutto si animava era il mio cuore nell’attesa di quel giorno. Infatti, allo scoccare della mezzanotte il 24 dicembre mentre gli altri brindavano e scambiavano auguri non si sa per cosa, io ero lì di fronte al presepe a riporre il bambinello nella mangiatoia. Strana coincidenza, avevo un vicino di casa, che era un artista del presepio, ne realizzava uno su un grande tavolo da cucina, occupando un’intera parete della stanza: divenne il mio ispiratore.


Non lo comprendevo, ma quel che realizzavo era una trasposizione del mio animo. Desideravo veder nascere Gesù. Chissà se lassù qualcuno ha ricevuto il mio sforzo come una preghiera… avendo misericordia di me e del mio vicino. Infatti, da adolescente conobbi la Verità accostandomi alla fede evangelica e appresi che il figlio di Dio è nato una sola volta quale uomo sulla terra, e che ogni giorno “nasce” in milioni di cuori, che si aprono alla Sua grazia accogliendolo quale proprio Salvatore. L’azione di Dio entra così nella nostra esistenza terrena, la Sua Grazia ci trasforma e chiama molti a un compito inatteso, come accadde per Maria, Giuseppe e parte dei personaggi del mio presepe perché tanti altri erano frutto della fantasia. Accompagnato nello studio della bibbia, il mio amore si spostò gradualmente su Gesù, non più bambinello, ma maestro, profeta, salvatore.


Conquistato dalla Scritture, il presepe ha perso il suo significato religioso. Oggi non ha più nulla da comunicarmi, dato che il Cristo è nato nella mia vita. Come il battista, ho dovuto comprendere che conveniva che Egli crescesse. Non nascondo però che è rimasto quell’affetto… e ancor oggi non mi trattengo dall’apprezzare l’arte di tanti. Nel periodo di dicembre quando tutto intorno cominciano a comparire luci a illuminare la notte che presto arriva in questo periodo dell'anno, lucette intermittenti che rompono il cupo buio fuori e dentro le case e danno punti di riferimento, qualcosa si muove in me. Quel che per le strade e nelle case si ripete ogni anno nella cosiddetta “magia del natale” è il riflesso di quel che ogni essere umano porta nel cuore, ed io ne ho piena consapevolezza ora.

Tutti, chi più e chi meno, abbiamo paura del calare del buio, della vita che si spegne o solo della luce che improvvisamente svanisce. Ecco allora che alcuni, sollecitati dalle festività in arrivo, accendono luci in un rito scacciaguai, allestiscono un presepe come ad invocare un intervento divino o un rito propiziatorio, mentre altri (come me) si affidano alla luce venuta dal Cielo, fonte di speranza, àncora di salvezza. Chi nel buio ha già camminato, affrontando i giganti della malattia e del dolore in generale, mostri di precariato e carestia, i fantasmi della solitudine e dell’amarezza, ora che ne è venuto fuori sente il bisogno di lasciare tutto alle sue spalle. Così le luci diventano sinonimo di rinascita, perché non c’è persona che non abbia voglia di rialzarsi. Ritengo che festeggiare (quando lo si fa concretamente) è anche un modo per ricominciare. Posso assicurare che con Cristo ancor di più.


Purtroppo c’è sempre qualcuno che sta ancora attraversando la valle del buio e non sa se e quando finirà. Per lui/lei il luccicare intorno diventa un amorevole incoraggiamento a non mollare, perché non c’è notte che non passa e buio che non si dirada. Al presente però la festa altrui può anche provocare repulsione e smarrimento comprensibili. Desidero sinceramente che su tutte le luci, lucette, luminarie e candele che ovunque si accendono e brillano possano tanti cuori scorgere quella luce divina che da oltre duemila anni è venuta a diradare le tenebre dell’esistenza e che ancora oggi fa fatica ad emergere. Personalmente ho scoperto che né l’albero, né tantomeno il presepe sarà mai strumento di Grazia, così come non lo è ciascuno di noi. Lo Spirito, che opera come Egli, fuori da ogni umano e religioso schema, possa vivificare lo spirito di tanti senza più speranza. Soprattutto aiuti noi ad essere quei canali viventi e parlanti attraverso cui la Grazia divina possa raggiunge altri e farci vedere tanti nascere di nuovo.


 

Foto di subhadipin, www.freeimages.com

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